domenica 29 gennaio 2017

Inquinatori sottovento!

Dopo che nel 2015 l’Environmental protection agency (Epa) degli Stati Uniti aveva notificato a Volkswagen l’avviso di una violazione del Clean Air Act per via di un apposito software, montato su alcuni modelli di auto diesel, capace di aggirare le norme sulle emissioni Epa per alcuni inquinanti atmosferici, l’idea che gli USA fossero, in alcuni settori, un punto di riferimento nella tutela ambientale è balenato nelle menti di molti. Di fatto, in questa storia (che si sta ripetendo a quanto pare con Fiat Chrysler Automobiles nonostante le rassicurazioni ai big dell'auto da parte di Trump), gli Usa dovrebbero aver dato agli europei una buona lezione, perché mentre l’Epa ha di fatto ritirato milioni di auto e ha potuto chiedere a Volkswagen una multa miliardaria, noi in Europa abbiamo organismi di valutazione scientifica come l’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) che possono al massimo “coordinare la rete europea di informazione ed osservazione ambientale” e “informare l’Unione europea, la Commissione europea, il Parlamento europeo, il Consiglio e i Paesi membri dell’Unione”, ma non possono in modo indipendente controllare o sanzionare nessuno.

Per quanto pregevole sia il lavoro di agenzie come l’Epa, le minacce alla salute pubblica a stelle e strisce dovute all’inquinamento atmosferico non arrivano solo dalle automobili della Vecchia Europa, ma anche dai vari Stati che compongono la Repubblica Federale e che quando si parla di ambiente sembrano tentare di farsi le scarpe a vicenda.  Lo studio “Gone With the Wind: Federalism and the Strategic Location of Air Polluters” pubblicato sull’American Journal of Political Science da David Konisky dell’università dell’Indiana, James Monogan, dell’università della Georgia e da Neal Woods dell’università della South Carolina, rivela un modello particolarmente “furbo” utilizzato all’interno degli USA che “Collocando le fabbriche più inquinanti e le centrali elettriche in prossimità delle proprie frontiere statali e sottovento, riescono a far raccogliere ai vari Stati federali i frutti dei posti di lavoro, del gettito fiscale e della produzione, ma anche a condividere con i vicini gli effetti negativi dell’inquinamento atmosferico”.

Lo studio che usando la tecnica chiamata point pattern analysis ha confrontato 16.211 impianti Usa che producono inquinamento atmosferico con altre 20.536 realtà che producono rifiuti pericolosi, ma non inquinamento atmosferico, ha dimostrato che “Gli impianti che producono inquinamento atmosferico hanno più probabilità di essere vicino ai confini dei diversi Stati sottovento rispetto a quelli che producono altri tipi di rifiuti”. Chi inquina, insomma, ha il 22% di probabilità in più di trovarsi in prossimità di un confine di Stato sottovento, una tendenza particolarmente pronunciata per i grandi impianti che emettono emissioni atmosferiche tossiche come quelle comprese nel programma Toxics release inventory dell’Environmental protection agency (Epa). È quindi pensabile che localizzare strategicamente le fabbriche più inquinanti lungo i propri confini statali sia un’abitudine consolidata, almeno statisticamente, in tutti gli Stati Uniti d’America.

Precedenti ricerche avevano già scoperto che gli Stati sono meno rigorosi nell’applicare i regolamenti negli impianti vicino ai loro confini rispetto agli altri.  Ma il nuovo studio suggerisce che “la discrepanza può avvenire già nel processo di decisione che porta a scegliere dove collocare gli impianti” perché tutti i soggetti coinvolti: gli Stati, i governi locali e le imprese o le istituzioni che costruiscono e gestiscono gli impianti hanno degli interessi in ballo. “I governi potrebbero voler recuperare posti di lavoro o proteggere i propri cittadini dall’inquinamento atmosferico. Gli operatori dell’impianto potrebbero voler evitare l’opposizione nimby [non nel mio giardino]” hanno spiegato i ricercatori. Un sistema industriale che si presta, quindi, al così detto free riding, cioè l’abitudine a beneficiare di beni o servizi senza pagarne l’intero costo, in questo caso ambientale, un atteggiamento che sembra piuttosto trasversale a tutti gli Stati della Federazione. È tipica, infatti, degli Stati con una politica ambientale meno rigorosa e in quelli con programmi di sviluppo economico aggressivi che perseguono l’industria della “ciminiera”, ma non è rara anche negli Stati con un’alta densità di organizzazioni ambientaliste, “suggerendo che il businesses può prendere decisioni sulla localizzazione anche per evitare l’opposizione locale”.

Anche se il Clean Air Act è stato pensato per affrontare il problema dell’inquinamento atmosferico con standard uniformi, nel sistema federale Usa l’applicazione delle norme compete in gran parte agli Stati, che possono avere meno interesse a controllare gli impianti industriali che producono un inquinamento dell’aria che finisce oltre i loro confini. Per questo l’amministrazione Obama (dopo che il Sierra Club, uno dei più importanti gruppi ambientalisti a stelle e strisce, lo ha citato in giudizio nel 2011 per non essersi speso abbastanza nel miglioramento della qualità dell'aria) ha tentato in questi ultimi anni di imporre nuove regole alle emissione dei livelli di ozono di fabbriche e centrali elettriche, abbassando i limiti alla produzione di inquinanti da 70 parti per miliardo nell’ozono livello terra, contro i 75 precedenti. Una proposta che era stata giudicata insufficiente dagli ambientalisti americani per i quali "qualsiasi limite superiore a 60 parti per miliardo consente ancora livelli troppo pericolosi di inquinamento atmosferico" e che aveva portato l’avvocato di Earthjustice a ritenere la normativa “un tradimento rispetto alla promessa per un’aria meno inquinata contenuta nel Clean air act”. Ora sarà interessante capire come l’amministrazione Trump tratterà la materia, non solo lungo i confini statali e sottovento.

Alessandro Graziadei

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