domenica 19 marzo 2017

L’insostenibile leggerezza della pesca

Lo avevamo scritto già nel 2011 con “Stok ittici prosciugati” e ricordato nel 2015 con “Stanno svuotando il Mare nostrum”. Così, se due indizi fanno una prova, possiamo dire che anche secondo l’ultimo report della Banca MondialeThe Sunken Billions Revisited: Progress and Challenges in Global Marine Fisheries (I miliardi sommersi: progressi e sfide per la pesca marittima a livello internazionale), la situazione del Mediterraneo è lo specchio di una crisi del patrimonio ittico mondiale e oggi “una gestione più sostenibile delle risorse ittiche, in massima parte limitando gli scarti, genererebbe un profitto annuale di 83 miliardi di dollari”. Il recente aggiornamento dello studio, pubblicato per la prima volta dalla Banca Mondiale nel 2009, ci suggerisce quindi che ridurre la pressione della pesca a livello globale è un passo che non solo contribuirebbe alla ricostituzione degli stock ittici, ma garantirebbe all’industria della pesca una resa maggiore e più costante nel tempo. Questo perché quando gli stock ittici si esauriscono e le zone di pesca si spostano più lontano dalle aree di consumo, “raggiungerle richiede più energia, più tempo e un maggiore dispendio di risorse umane e logistiche”.

L’analisi della Banca Mondiale parte dalla costatazione che la percentuale delle zone di pesca pienamente sfruttate, sovrasfruttate o esaurite è cresciuta in maniera vertiginosa passando dal 60% del 1975, al 75% nel 2005 e a quasi il 90% del 2013, minacciate principalmente da un’industria ittica incapace di valutare la propria sostenibilità, oltre che dall’inquinamento, dallo sviluppo costiero e dagli impatti dei cambiamenti climatici. Per l’autore del rapporto, il professor Ragnar Arnason dalla Facoltà di Economia presso l’Università di Islanda, “il fatto che l’industria della pesca attuale sia concentra solo su alcune specie, si traduce in uno squilibrio nell’ecosistema, mentre il ripristino degli stock ittici delle specie più commerciali potrebbe portare a ecosistemi marini più sani”. L’unico modo per garantire questi stock, come conferma lo studio, “è quello di lasciare le popolazioni ittiche indisturbate, far loro risolvere naturalmente il problema ed eventualmente passare a un modello di pesca biodinamica e più selettiva”.

Per quanto la situazione appaia preoccupante, esiste una soluzione al problema. Per il professore Adnan Ayaz dell’Università di Canakkale Onsekiz Mart (Turchia) la via migliore è quella di "pescare meno i pesci più richiesti" e “non pescare i pesci che non mangiamo, perché se non si prenderanno le misure necessarie gli stock collasseranno entro il 2050”. Un buon punto di partenza potrebbe essere “Stabilire quote di pescato, potenziare la pesca selettiva e incentivare l’utilizzo di reti e attrezzi che consentano di ridurre i rigetti”, tutte soluzioni che in molte zone di pesca sono risultate efficaci, sia per recuperare le risorse ittiche, sia per migliorare le condizioni lavorative delle popolazioni costiere. Per questo per la vicepresidente della Banca Mondiale per lo sviluppo sostenibile, Laura Tuck, “Questo studio conferma ciò che abbiamo potuto appurare in diversi contesti territoriali e cioè che concedere una pausa agli oceani paga”. 

Ma l’overfishing (termine ormai internazionale per indicare la sovra-pesca) costituisce un danno non solo dal punto di vista economico, ma anche biologico. L’impoverimento delle popolazioni ittiche, infatti, rappresenta una perdita in termini di biodiversità, che spesso provoca un vero e proprio sconquasso negli ecosistemi marini e un drastico cambiamento della catena alimentare, che a sua volta determina l’aumento infestante di specie con alimentazione opportunistica. Inoltre, secondo la Tuck, scegliere un modello di gestione più sostenibile della pesca può produrre benefici per la sicurezza alimentare, la riduzione della povertà e la crescita a lungo termine anche di alcune economie emergenti. “Certamente così non si raggiungerebbe solo un guadagno economico. Il ripristino degli stock potrebbe contribuire a soddisfare la domanda mondiale oltre che migliorare la sicurezza alimentare in molti paesi in cui l’alimentazione a base di prodotti ittici, è una voce essenziale dell’alimentazione umana”.

Per contrastare il problema anche a livello europeo le associazioni ambientaliste, Archipelagos, Fundació ENT, Greenpeace, Legambiente, Marevivo, MedReAct e Oceana da un anno hanno firmato un appello per chiedere alla Commissione Europea e ai Paesi Membri di adottare misure urgenti per fermare la pesca eccessiva e recuperare gli stock ittici del Mediterraneo. “Servono scelte politiche forti e in linea con i pareri scientifici capaci di individuare tassi di sfruttamento commisurati con il recupero degli stock ittici - hanno dichiarato gli ambientalisti - e per questo chiediamo alla Commissione di adottare subito misure di emergenza che possano prevedere la  sospensione temporanea delle pratiche di pesca sugli stock ittici a rischio [come ad esempio il nasello, le acciughe e il pesce spada]; di mettere in campo azioni di lungo termine con la programmazione di piani di recupero, la creazione di aree di ripopolamento e la protezione delle aree sensibili; infine di rafforzare i controlli in mare e a terra con l’applicazione di sanzioni dissuasive contro la pesca illegale”. Solo così per le ong sarà possibile il recupero di tutti gli stock entro il 2020, come previsto dalla Riforma della Politica Comune della Pesca e parafrasando Milan Kundera potremmo superare “L’insostenibile leggerezza della pesca”.

Alessandro Graziadei

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